Generalmente quando si parla di Africa si pensa all’idea di diverso: diversa cultura, diversa mentalità, diversa pelle…. e quando si parla di diverso la parola nascosta, diventata ormai sinonimo, è “strano”.
Ma diversità non è sinonimo di disuguaglianza. Giorgio Gaber in uno dei suoi monologhi degli anni ’70 chiedeva provocatorio: “ma non si potrebbe essere diversi.. così? Tutta una base? Un piano unico?” Noi cristiani dimentichiamo che la diversità è il materiale con cui Dio crea l’unità. Papa Francesco non smette di ricordarcelo.
Io penso, nella mia modesta anche se ventennale esperienza in Africa, che ci siano molte cose da imparare dagli africani se solo avessimo un po’ più di umiltà. Anche noi avremmo molte cose da insegnare loro se avessimo ancora più umiltà e dare loro la dignità che meritano come uomini nostri fratelli. Insieme potremmo diventare qualcosa di diverso ma di unito. E’ la storia del mondo che si ripete, ricordando Qoelet, e io aggiungo che non saranno certo muri di cemento o filo spinato a fermarla.
Sul piano relazionale noi avremmo molto da imparare da loro. Il loro modo di stare insieme, di condividere la vita. E’ bello vederli stare seduti uno accanto all’altro per ore senza dirsi una parola, oppure camminare sul marciapiede tenendosi per mano fra amici, o ancora il loro modo di prendersi in giro, delicato ma preciso; il rispondere sempre sì per non offendere l’interlocutore. Nei villaggi in cui vado mi colpisce il loro modo di affrontare e risolvere i problemi: ognuno dice la sua, a turno, prendendosi tutto il tempo che vuole e si discute fino a quando non si trova una soluzione che vada bene a tutti…altro che la nostra democrazia, ormai diventata la dittatura della maggioranza!
A livello di organizzazione, invece, siamo noi a fare da maestri. Semplicissime operazioni che noi sbrigheremmo in due giorni loro ci possono mettere anche mesi. Ecco, è il senso pratico che manca loro. Ricordo che anni fa in Burkina Faso per organizzare una filiera di latte, produzione trasporto e consegna, ci mettemmo otto mesi. Una cosa che qui da noi sarebbe stato sufficiente un paio di settimane. D’altra parte, si sa, gli africani hanno un sacco di tempo perché non hanno niente da fare. Noi invece abbiamo tante cose ma non abbiamo il tempo per godercele.
Ma più di tutto, quello che mi colpisce ancora e sempre, ogni volta che torno in Africa, è il rapporto che hanno gli africani con la morte. Quest’inverno in Etiopia mentre stavo da una italiana che si occupa di orfani, una mattina è arrivato un ragazzo con il figlio nato la notte prima. La madre morta durante i parto. “Mia moglie ha reso l’anima, potete tenermi qui il bambino intanto che mi organizzo con le mie sorelle?”
Raramente si sente dire “è morto” ma piuttosto “è partito” oppure “ha reso l’anima”.
I defunti vengono venerati (non adorati) come noi facciamo con i nostri Santi perché sono un ponte fra i vivi e il Creatore. Di fronte a un lutto si piange, sì, ma per il dolore non per la tristezza perché, come dice il teologo camerunense Martin Nkafu, “quando uno nasce non muore più”.
Noi invece siamo terrorizzati dall’idea di morire e pensiamo che il modo migliore per affrontarla sia quello di non pensarci; come se non esistesse. Poi quando la scorgiamo anche solo da lontano ci barrichiamo in casa dopo avere riempito la dispensa.
Noi Cristiani, così orgogliosi di esserlo da sventolarlo nelle piazze, dovremmo imparare dagli africani, non cristiani, a essere un po’ più discepoli di Cristo e non umiliare la vita che umilia la morte.
Giuseppe Bellotti